Il 1980 è il momento per Grace Slick di realizzare il proprio secondo album da solista. Non viene affatto da un periodo di riposo o inattività la cantante dei, ormai defunti, Jefferson Airplane; nel 1978 realizzò “Earth” con i Jefferson Starship nei quali vi ritornerà l’anno dopo per l’album “Modern Times”.
Per “Dreams” la Slick decide di affiancarsi musicisti non coinvolti con i Jefferson Starship e in particolare
è la supervisione di Ron Frangipane la vera mossa azzeccata; infatti il produttore si occuperà di supervisionare ma anche dirigere le orchestrazioni di alcuni brani, e suonare i synth spesso spalmati in alcune delle nove canzoni. In totale però, contando Grace Slick, saranno in 22 a suonare in questo album tra percussionisti, chitarristi, violino, batteria, direttori d’orchestra, sax e altro ancora.
è la supervisione di Ron Frangipane la vera mossa azzeccata; infatti il produttore si occuperà di supervisionare ma anche dirigere le orchestrazioni di alcuni brani, e suonare i synth spesso spalmati in alcune delle nove canzoni. In totale però, contando Grace Slick, saranno in 22 a suonare in questo album tra percussionisti, chitarristi, violino, batteria, direttori d’orchestra, sax e altro ancora.
Il risultato finale di “Dreams” è quello di avere evidenziato la voce di Grace Slick. Nei pezzi le note si fondono e ricalcano il ritmo della voce, così la cantante dell’Illinois non è mai costretta a dover seguire la musica, ma avviene il contrario e questo le consente di esprimersi in modo libero e totale, sospingendo agli estremi confini della bellezza la sua voce.
L’apertura è affidata alla titletrack, un brano fatto di voce e orchestra, a seguire è "El Diablo" dove una chtarra acustica spagnoleggiante è affiancata dall’elettrica che sorregge il tema melodico portante. "Face to the Wind" ritrova di nuovo l’acustica che accompagna le variazioni della canzone, la quale è costruita sulle progressioni intrecciate di chitarra elettrica e batteria. La Slick però domina su tutto, per poi cedere spazio al lungo e intenso assolo di chiusura della chitarra. Tracce folk si ritrovano in “Seasons”, mentre "Do It the Hard Way" è tranquillamente indebitata con il soul. La prova migliore di Grace Slick è in “Let It Go”, dove la sua voce è l’assoluta protagonista, mentre strumenti e orchestrazioni restano placidamente sullo sfondo. Nella conclusiva "Garden of Man" l’incipit barocco e fiabesco si evolve in vette drammatiche, sulle quali poi Grace Slick diventa il vento che s’innalza con impeto attraverso quelle cime.